Una tennistica menzogna viene
perpetrata senza vergogna dai giornalisti del globo intero, e cioè
la presunta dualità tecnico-psicologica degli incontri. A questa asserzione sommate il luogo
comune che inquadra questo sport come il più dispendioso dal “punto di
vista mentale” - concetto semplice ma arduo da contraddire, in effetti – e la derivante convinzione dello spettatore medio è che
si giochi una partita contemporaneamente su due piani distinti,
quello materiale e quello astratto. Può essere una dicotomia utile
per approcciarsi al tennis, funzionale a seguirlo, ma è a dir poco
riduttiva per descriverlo e narrarlo per come è. Del resto,
se la concezione dominante del pubblico è quella appena detta, di
certo non lo è anche la percezione dell'evento: a chiunque abbia
visto più di dieci partite penso sia chiaro che su quel campo si
scatenino forze devastanti, e che ci sia in gioco molto più che una
vittoria: un top-100 si batte palesando il
proprio passato, il proprio credo e, in generale, la propria stessa
identità. Perché se è vero che il “livello mentale” conta
anche nelle partite all'oratorio, in cui i giocatori sono
concentrarti sul tennis solo ed esclusivamente durante quei novanta
minuti, per un atleta come Nadal perdere equivale ad annichilirsi. A
fallire nella vita. A essere spaghettificato da un buco nero. Qualche
giorno fa ha dichiarato che per lui “c'è molto altro dopo il
tennis”, ma stava evidentemente mentendo. Ho preso Rafael come
esempio perché, a mio parere, è quello che più di tutti, almeno in
tempi recenti, ha fatto coincidere la propria vita - intesa come
obbiettivi, soddisfazioni e investimento temporale - col proprio
tennis. Ma, al di là della concatenazione tra le forze sprigionate
durante una partita (ci arriveremo tra poco) la grande menzogna
citata inizialmente si rivela tale perché i due piani tecnico-mentali
non possono, e non potranno mai, essere scissi. Ogni backspin è una
tacita frase sibillina, ogni topspin profondo è una provocazione, un
“come on” piazzato per andare a palla break vale tre colpi
vincenti, una serie di recuperi stoici – vadano o non vadano a buon
fine – dichiarano stentorea resistenza. Quando delle corde
accarezzano una pallina le trasferiscono la vita del tennista, il suo
gioco, le sue attuali intenzioni e il momentaneo stato mentale:
mentre la sfera transita per aria si porta appresso un ecosistema di
sensazioni e provocazioni, a cui l'altro atleta è chiamato a
rispondere - mettendosi egualmente a nudo.
Si dice spesso che il tennis sia
metafora di vita, e altrettanto frequentemente si leggono figure
retoriche atte a ritrarre le gesta degli atleti – ormai ho perso il
conto delle “poesie” scritte da Federer, ad esempio. È possibile
che sia un metodo adeguato, e sicuramente, se dosato bene, è utile a
estetizzare il tennis, donandogli dignità letteraria. Ma,
personalmente, non l'ho mai trovato appropriato a dipingere le
partite in sé e per sé; allo stesso tempo, considero ancora più
lontani dalla realtà quei referti - scambiati per articoli - che
inanellano schematiche descrizioni dei punti più interessanti,
vivisezionando i colpi, deprivandoli dell'anima. Figuriamoci le
demoniache statistiche. Come detto prima, scambiandosi la pallina i
tennisti intrecciano anche i loro mondi, composti da padri, madri,
fidanzati/e, allenamenti, stili: per questo, assistendo a una
partita, mi pare che non ci sia bisogno di estetizzare ulteriormente
quanto accade, se non per cercare qualcosa che vada oltre il tennis.
I colpi, gli scontri, già di per sé sono figure retoriche,
reificazioni di quelle immense potenze che elegantemente
sintetizzano. Il tennis che possiamo osservare coi nostri occhi sta a
quello epifenomenico come la poesia sta alla parafrasi. Per questo
non penso che sia necessario ricamare ulteriormente su quello che
potrebbe stare sopra i colpi, se non per parlare d'altro: se il
fulcro del discorso è descrivere una partita, è giusto concentrarsi
su quello che c'è sotto, non sopra. Srotolare quella matassa di
sguardi, esultanze, silenzi, scambi, e mostrare tutte quelle cose vi
si nascondono all'interno.
In questi scontri esistenziali ci
sono due regole. La prima è comune allo sport che osserviamo
sensibilmente, quello costituito da due corpi, una pallina, un campo
e una rete: citando il maestro elvetico, “il tennis esige sempre
una vittima”. Federer non ha scelto i termini a caso: quando
ammirate un tennista perdere, mentre stringe la mano all'avversario,
qualcosa in lui è stato profondamente ferito, forse addirittura
ucciso. La seconda regola è che, se nella realtà osservabile ci
sono forze astratte ed invisibili, al contrario non possono
ontologicamente esistere in una dimensione epifenomenica, e
parafrastica, come quella in cui ci avventureremo tra poco. Se un
tennista pensa qualcosa, quel qualcosa subitaneamente si concretizza.
Siano timori, colpi, punti o condanne, qui si reificano.
Entrare
insieme in questo mondo e presentarvi come prima “essenza” la
vera natura di Nadal sarebbe come prendere Dante per le manine,
accompagnarlo oltre la soglia dell'Inferno e gettarlo senza orpelli
in fondo all'imbuto, all'immediato cospetto di Satana imbufalito e
surgelato. Senza gironi, Ulisse o limbo: niente tempo da perdere,
subito la Bestia. Eppure, non essendo questo un romanzo ma un diario
senza un percorso stabilito, non possiamo fare altrimenti: perché,
di fatto, lo stesso Kyrgios qui si è trovato. Nick poteva già
ritenersi soddisfatto, ne aveva tutti i motivi: arrivava dal
trionfale Challenger di Nottingham, ed era giunto, issandosi con
potenza e coraggio, fino agli ottavi di Wimbledon. Un traguardo
tagliato dopo una spettacolare rimonta al secondo turno contro
Richard Gasquet, il pavone transalpino, a cui aveva annullato nove
match point. Forse Kyrgios non era cosciente, non pienamente, che ad
aspettarlo c'era la Bestia. Tanto da dichiarare, poche ore prima
della partita, “posso battere Nadal”.
Il giorno del match,
sui verdi prati antistanti al Tempio, adornati da bianchi palazzi
antichi e armoniose statue classiche, Nick si è ritrovato davanti
all'informe, orrorifica massa liquida grumosa, figlia di bitume,
petrolio e rimasugli di carogne, popolata da indomiti opliti spartani
e chiamata, nel nostro mondo, “Nadal”: della ctonia distesa il
povero Kyrgios non scorgeva la fine. In pochi hanno trovato la Bestia
che domina questa nera palude, ancora meno sono sopravvissuti
all'incontro, nessuno, neanche i vincitori, osano descriverne la
forma agli altri. Col magnifico impeto dei suoi 19 anni, Nick ha
alzato la testa, scrutato l'orizzonte, e senza timore ha posato la
prima zampa in quel liquido fetido: così ha dato il via alla sua
personalissima caccia al Mostro.
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